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Giancarla Matteuzzi - “STARE COI POVERI: il messaggio scomodo di don Paolo Serra Zanetti”

Presentazione del volume

Pubblicazione su don Paolo Serra Zanetti nel X° anniversario della sua morte,

a cura di A. Deoriti e M. Marabini - Dehoniana Libri, 2015

Fu presentata il 14 Marzo 2015 nella Sala Tassinari di Palazzo d’Accursio da:

Sandra Deoriti, Fabrizio Mandreoli, Giancarla Codrignani, Giancarla Matteuzzi, Gianni Sofri

Intervento di Giancarla Matteuzzi

Stare con i poveri – è il titolo che è stato dato al volume e Matteo Marabini, nel suo articolo, si sofferma su quello “stare”, preferito ad altri possibili verbi.

E nelle pagine del libro questo “stare” di don Paolo coi poveri, viene declinato in tante sfumature e le persone che hanno scritto gli articoli, che a don Paolo volevano tutte molto bene - e si coglie- hanno saputo, per così dire, filmare tante situazioni.

Emergono tante accezioni di poveri.

Certo, i suoi amici “preferiti” – diciamo così -, quelli, cioè, che lo seguivano in strada, e dovunque, e anche all’Università, sono quelli su cui tutti poniamo particolarmente l’attenzione, però non sono solo loro i poveri coi quali don Paolo aveva scelto di stare.

Dico “aveva scelto”, ma avverto che l’espressione non è adeguata, don Paolino forse scuoterebbe la testa, direbbe che non si è trattato di una scelta, ma di qualcosa di urgente, di fronte a cui non si poteva fare diversamente.

Potremmo comunque dire che dentro alla categoria dei “poveri” , diciamo così, amici di don Paolo, sono in realtà comprese le molteplici fatiche del vivere.

Mi è rimasta in mente – perché mi sembra molto simpatica - quella osservazione di Antonio Cacciari, che, giovane universitario, sorpreso nel vedere fuori dallo studio di don Paolo quei suoi singolari amici, pensa: “saranno dei fuori corso”… o, sempre nell’articolo di Antonio – ma non solo nel suo - quella speciale attenzione per gli alunni meno dotati (“poveri” in quel contesto), le tesi che lui stesso in parte rifaceva, il librino che regalava (secondo la leggenda riferita dalla Sandra) a quegli studenti a cui non poteva proprio dare 30 all’esame.

Ma io vorrei accennare a una declinazione del suo stare con i poveri, che non ho trovato negli articoli del libro.

Intendo parlare di quella forma di povertà nella quale può capitare a tutti – presbiteri e laici - in talune occasioni di incappare – e specificamente dentro alla Chiesa.

Anche a chi è ricco, pieno di salute, affetti, intelligenza, equilibrio psicologico, buon carattere, fortuna …

Quando ti capita qualche “guaio” personale proprio all’interno della tua Chiesa, quando hai forse anche commesso qualche colpa - o anche forse no, magari sei stato frainteso - e sei trattato, come spesso accade nei contesti ecclesiastici, senza possibilità di difenderti, di esprimere le tue ragioni.

Quando ti emarginano o ti mettono qualche etichetta negativa, senza ascoltare la tua versione, le tue intenzioni.

Ti trovi nei pettegolezzi dei corridoi, ma nessuno ha la buona idea di parlarne direttamente con te, di ascoltarti.

Essere in questa situazione all’interno della propria Chiesa, è davvero una condizione di povertà, soprattutto se ci si tiene alla propria Chiesa.

Ecco: quando a qualcuno dei suoi confratelli presbiteri, - o anche di noi laici - è capitato di trovarsi dentro a questo genere di povertà, abbiamo sentito subito che don Paolo “stava” con noi, era “dalla nostra parte”.

In molti ricordiamo di essere stati cercati da lui in questi frangenti – ci è rimasta impressa quella telefonata, che non ti aspetti, che magari nessuno ti ha fatto - …

Abbiamo, insomma, sentito la sua vicinanza, il suo interessamento: finalmente ci sentiamo chiedere come sono andate veramente le cose.

Quello che veniva spettegolato nei corridoi delle curie e delle sagrestie, don Paolo si sentiva impegnato ad affrontarlo personalmente con l’interessato, prendendo lui l’iniziativa, anche quando si trattava di cose imbarazzanti e sgradevoli, anche quando non era interpellato direttamente, anche quando, potremmo dire, lui non c’entrava.

Ma non solo.

Si “faceva vicino” (… uso apposta una espressione che ricorda la parabola del buon samaritano) non soltanto esprimendo solidarietà affettiva, bensì impegnandosi con precisi interventi privati e pubblici nei contesti opportuni, istituzionali e non, atti, non necessariamente a giustificare o minimizzare colpe - là dove c’erano delle colpe -, ma a innescare un procedimento evangelico, dove la sincerità, la franchezza, la correzione fraterna sono indicate come le strade maestre.

“Stare” con questo genere di poveri, e in modo fattivo, impegnato a intervenire, non è mai una collocazione comoda in nessun contesto.

Ma direi, paradossalmente, soprattutto nella Chiesa.

Di certo nella nostra Chiesa.

Talora, infatti, ha voluto dire prendere le difese di qualcuno davanti al vescovo ad esempio.

Per essere, magari, pubblicamente, trattato duramente da lui e irriso dai benpensanti suoi cortigiani.

Don Paolo era un uomo coraggioso, forte.

La sua umiltà non significava timidezza o codardia: era insistente, testardo, direi, quando riteneva ci fosse qualcosa di importante da dire e, soprattutto, qualcuno da difendere.

Avrei voluto poter documentare questo coraggio di don Paolo, in modo più preciso, e mi ero proposta di fare un articolo per questo libro cercando i suoi interventi nei Consigli presbiterali, non perché il Consiglio presbiterale fosse l’unico contesto in cui don Paolo si era espresso in questo senso, ma perché pensavo che se ne potesse trovare documentazione scritta.

E, nei mesi scorsi, sono andata in curia negli archivi a scartabellare i verbali dei Consigli presbiterali di quegli anni, perché sapevo bene, dai racconti degli amici presbiteri, che molto spesso don Paolo si poneva dalla parte scomoda, dalla parte di chi a ragione o a torto, laico o presbitero, si trovava in disgrazia in quel momento.

Ma i verbali sono redatti in modo che non è possibile fare una indagine del genere con qualche attendibilità.

Ci sono però due episodi che voglio raccontare, perché mi ci sono trovata in mezzo personalmente.

1987, Congresso Eucaristico Diocesano proposto con iniziative di stile spettacolare che a molti di noi (allora giovani) pareva troppo mondano, superficiale, che non toccasse i veri problemi della vita, della città, della società.

E soprattutto che quello stile proprio non fosse adeguato all’Eucaristia, segno della estrema spogliazione di Dio. (Richiamo alla memoria dei presenti solo la grande serata al Palazzo dello sport con Gina Lollobrigida e altre star).

In una Messa a Monte Sole che apriva le celebrazioni conclusive del Congresso, il card. Biffi aveva paragonato chi trovava inopportuno questo stile, a Mikol, la moglie di Davide, che “arida e contegnosa” non apprezzava la danza del marito attorno all’arca del Signore … Come Mikol erano quelli che non volevano nel Congresso eventi troppo spettacolari …

Inoltre il cardinale aveva pubblicamente fatto sapere che non doveva levarsi alcuna voce discordante finché le celebrazioni del Congresso non fossero terminate.

Un gruppo di noi disobbedì a questa censura e scrisse – proprio durante i giorni del Congresso- una lettera aperta di disaccordo con questo modo di festeggiare (diciamo così) l’Eucaristia.

La reazione del Vescovo fu durissima: in varie occasioni pubbliche disse cose molto severe, definendo ignobili gli autori della lettera – e, con lui, i suoi più fedeli, non mancarono di fargli eco, e quel gruppetto che aveva sperato con quel gesto di poter aprire un confronto con il proprio vescovo, si rese conto di averla fatta grossa e chiese un incontro di riappacificazione con lui.

Disposti a scusarsi, per ritrovare una comunione che indubbiamente si era rotta.

Il Vescovo non volle riceverli.

Questo atteggiamento estremo fu inaccettabile per don Paolo che li conosceva uno per uno, sapeva quello che c’era dietro a quella lettera e non poteva neppure immaginare che Biffi potesse rifiutarsi di incontrare quei giovani, tutti peraltro impegnati nella Chiesa, alcuni con ruoli di responsabilità, (tra i firmatari c’erano i due ex vicepresidenti del settore giovani dell’AC diocesana, ad esempio) e in tutti i modi possibili cercò di intervenire, per ottenere, almeno, l’incontro.

L’incontro non ci fu e il Vescovo in parecchie occasioni - e anche pubbliche rimproverò don Paolo - di essersi messo da quella parte.

E per parecchio tempo, - sempre in modo indiretto e pettegolo -, se ne continuò a parlare come di un gravissimo fatto di insubordinazione … e di don Paolo si irrideva, come di questo solito ingenuo che – guarda caso - credeva che si potesse mettere in pratica Matteo 18 … (il testo del Vangelo di Matteo in cui si dice come va trattato il fratello che commette una colpa all’interno della comunità)

Il secondo episodio che vorrei ricordare, è forse di qualche anno dopo.

Don Paolo frequentava un gruppo biblico interconfessionale presso la Chiesa metodista, che anch’io frequentavo (è quel gruppo, che peraltro esiste ancora, di cui parla Teresa Buzzetti nel suo contributo nel libro).

Avevamo quindi avuto modo di conoscere bene il pastore di quella comunità, Giovanni Anziani.

L’appartenenza alla tradizione protestante e la sua personale spiritualità facevano emergere nella sua predicazione, in modo tutto speciale, la centralità della croce e del Crocefisso.

In quei mesi si discuteva nel mondo laico sulla presenza del crocefisso nelle scuole e negli ambienti pubblici. C’era acceso dibattito sulla stampa: anche fra i cattolici impegnati c’era dissenso: c’erano argomenti per difenderne la permanenza o per chiedere che venisse tolto.

Era diventata una battaglia ideologica.

Il pastore Anziani (come tutta la sua comunità) sosteneva la non opportunità della presenza del crocefisso nei luoghi pubblici e scrisse una lettera a un quotidiano, in tal senso.

La reazione di Bologna 7 (il foglio della Chiesa di Bologna) contro l’intervento di Anziani fu immediata: la domenica successiva comparve un articolo pieno di sottintesi irridenti che si concludeva esprimendo forti dubbi sulla centralità della Croce nella comunità protestante e nella fede del suo pastore.

Don Paolo che, più di altri, avvertiva come quelle conseguenze fossero offensive e gratuite, non si dava pace.

Era letteralmente tormentato.

Voleva parlare con l’autore dell’articolo, scrivere al giornale, gli pareva doveroso intervenire.

Sentiva che era stato commesso un sopruso colpendo l’altro proprio nel cuore della sua fede: ciò che dava senso al suo vivere e al suo ministero.

Ho ben presente l’angustia di don Paolo che riteneva urgente fare qualcosa, e cercava, la modalità più opportuna ed efficace.

Era diventato un tarlo per lui, e ne parlava ogni volta che incontrava qualcuno che conosceva la situazione e che aveva elementi per condividere con lui quella sofferenza.

Ci pensò a lungo, infine, “con i suoi soliti ritardi” (come si esprimeva lui …) dopo un po’ di tempo intervenne su più di un fronte.

Come era prevedibile fu messo a tacere e non ci fu nessuna richiesta di scuse su nessun giornale.

Io credo che questo aspetto della persona di don Paolo, questa sua parresia - uso una parola grossa, ma non la credo inopportuna - che in questi 10-11 anni, è venuto fuori raramente, andrebbe meglio indagato.

Forse può essere fatto solo sollecitando la nostra memoria e cercando testimonianze vive. E bisognerebbe farlo finché c’è la possibilità di ricordare.


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